Rebranding o debranding?

I motivi sono molti, ma una cosa è certa: ci sono sempre più loghi senza nome. Vediamo perché.

  • 10/11/2017
  • Events & talks

Il nuovo logo di Mastercard, presentato qualche tempo fa, ci dà lo spunto per riflettere su una tendenza che sta trasformando il mondo della comunicazione negli ultimi anni: un vero e proprio cambio di paradigma nelle dinamiche che legano il marchio ai suoi interlocutori.

Andiamo con ordine.

È il 1995 quando Nike, all'apice del successo in campo commerciale e nel percepito dei consumatori, decide di mettere in atto un'operazione apparentemente folle: eliminare qualsiasi scritta dal proprio logo, lasciando unicamente il “baffo” (negli Stati Uniti lo chiamano Swoosh) a rappresentare i valori del brand. Una manifestazione di potenza più che un atto di umiltà: il brand aveva raggiunto una riconoscibilità tale da potersi permettere, primo caso al mondo, di rinunciare a firmarsi per esteso, nella convinzione che chiunque avrebbe comunque associato il segno al naming. Obiettivo centrato: è il primo logo senza nome della storia.

Qualche anno dopo è la volta di Starbucks, ma per tutt'altra ragione: l'esigenza qui è quasi opposta: abbandonare un'identità troppo istituzionale a favore di un maggiore feeling locale. Insomma, Starbucks rinuncia al nome per apparire non come una multinazionale della ristorazione ma come il bar sotto casa. Non solo: su ogni tazzona di caffè lungo, lo spazio lasciato libero appena sotto il marchio viene sfruttato per scrivere a mano il nome del cliente che l'ha ordinato. Sembra un dettaglio ma non lo è. È il primo segnale di quel cambio di paradigma a cui accennavamo poco fa: è il brand che lascia spazio al consumatore. Di più: il simbolo della sirena stilizzata di Starbucks abbinato al nome del cliente scritto a mano danno vita a una sorta di nuovo brand, in cui l'azienda e il suo cliente occupano una posizione paritaria. Così facendo il brand non impone più dall'alto i propri messaggi, ma crea un dialogo con il consumatore, invitandolo a entrare nel suo mondo valoriale. Una sorta di umanizzazione della marca.

La stessa umanizzazione che ha portato, in tempi ravvicinati, due colossi del calibro di Nutella e Coca-Cola a mettere in commercio pack personalizzati con nomi propri di persona o appellativi di uso comune. Ricordate la campagna “Share a Coke”? Questa operazione ha permesso al brand di risollevare sensibilmente il trend delle vendite dopo anni di flessione.

Ora torniamo a Mastercard, con i suoi cerchi rossi e gialli che fanno da sfondo a una scritta che anno dopo anno è andata rimpicciolendosi, fino all'ultimo rebranding, in cui è andata a posizionarsi in basso, a mo' di tagline. E la sensazione è che sia l'ultimo passo prima della definitiva uscita di scena. In questo caso, la motivazione sembra ancora diversa: l'associazione mentale di un segno con un nome è un processo che richiede collaborazione da parte dell'utente, che deve recuperare un simbolo nel proprio archivio visivo e dargli un senso compiuto. Viene così a crearsi un legame più forte con il brand, perché le immagini risiedono in uno strato più profondo della coscienza. Date un'occhiata al logo di McDonald's, Shell o Apple…

I ricercatori hanno dimostrato che l'uso di immagini visive (rispetto alle immagini verbali) nella pubblicità aumenta l'attenzione dei consumatori e li sfida ad interpretare e comprendere il messaggio dell'annuncio in modo più attivo rispetto alle parole - ha scritto Jill J. Avery, docente presso la Harvard Business School. Questo processo di interpretazione o di elaborazione produce una maggiore quantità di immagini mentali e, in molti casi, una più personalizzata comprensione del messaggio dell'annuncio.

C'è anche una ragione tecnica: i loghi senza nome sono più pratici nei contesti digital perché si adattano più facilmente a tutti i device (dal piccolo schermo di uno smartwatch ai 40 pollici di una smart tv) occupando sempre una porzione ottimale. Inutile sottolineare come questo sia oggi un aspetto cruciale nella comunicazione d'impresa.

Insomma, i motivi possono essere diversi, ma la tendenza è unica: fare spazio al consumatore per creare un brand feeling più coinvolgente e invitarlo a diventare parte stessa del marchio e del suo universo. Un passo di lato, quindi, per fare più strada insieme.

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